Pubblica amministrazione Trasformazione digitale: pubblico e privato alleati per il Paese

Trasformazione digitale: pubblico e privato alleati per il Paese

di Francesco Miggiani

A (quasi) tutti nella vita sarà capitato di dover richiedere la patente di guida; chi l’ha fatto in questi ultimi anni avrà osservato che la procedura standard è questa: ci si collega al sito della Motorizzazione Civile, si stampa il modulo, lo si compila a mano, si scansiona il tutto e infine si procede con l’invio via pec. Sempre meglio di quello che accadeva fino a qualche anno fa, in cui tutto il procedimento era basato su documenti che spesso dovevano essere richiesti in qualche sede municipale. Il flusso che abbiamo narrato non è digitale, ma mescola cartaceo e digitale; è come se si fosse “tradotto” il vecchio procedimento cartaceo in un procedimento a base tecnologica. Per non parlare del fatto che se la persona non ha la pec, è costretta a seguire il percorso cartaceo tradizionale, con un aggravio evidente di tempo e di costi (sia per il cittadino sia per la Pubblica Amministrazione) e un salto all’indietro di parecchi anni nell’immaginario individuale.

La situazione che abbiamo descritto può essere estesa a numerosi procedimenti della nostra PA, e confligge con un contesto in cui si parla diffusamente (anche a seguito dell’accelerazione della digitalizzazione a seguito della pandemia) di app mobili, di cloud, big data, assistenti virtuali, IOT (Internet of things), machine learning, tecnologie blockchain e molto altro. La cybersecurity appare sempre più una variabile critica e l’accesso digitale inizia a essere considerato un diritto fondamentale delle persone.

Anche se da parecchi anni si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, l’obiettivo, come dimostra l’esempio, non si può dire che sia stato ancora raggiunto e il motivo non risiede nella resistenza al cambiamento delle burocrazie pubbliche, ma in probabili errori di impostazione che continuano a penalizzare i processi di innovazione della macchina pubblica.

In molti casi il problema non è digitalizzare processi e procedimenti, ma semplificarli, e in particolare fare in modo che il cittadino non debba farsi carico dei problemi dell’amministrazione. La digitalizzazione non deve servire a creare “sportelli digitali” per richiedere certificati, ma a far sì che le amministrazioni parlino tra loro e non chiedano nulla al cittadino. Dovremmo quindi parlare, come suggerito da Alfonso Fuggetta, esperto di informatica di rilievo internazionale, di una disappearing burocracy, un’amministrazione che scompare e si rende visibile solo quando esiste un reale bisogno da soddisfare, come nel caso della sanità, scuola, lavoro. La sfida, quindi, va ben al di là della digitalizzazione, ed è quella di innovare il rapporto tra cittadino e PA attraverso la creazione di citizen-valued services, servizi che siano di valore per il cittadino.

Per andare alla radice del problema è necessario evidenziare il fatto che il principale nodo delle entità che costituiscono la nostra PA è la loro incapacità di comunicare tra loro in forma digitale (anche se in taluni casi, vedi il caso degli accertamenti fiscali dell’amministrazione finanziaria, si frappongono ostacoli normativi collegati alla tutela della privacy).

La scelta del passato di dare priorità soprattutto alle “cose che si vedono”, ovvero ai sistemi e alle applicazioni direttamente utilizzabili dagli utenti, ha portato a delle importanti realizzazioni (CIE e SPID in tema di identificazione; PagoPa per i servizi di pagamento; l’App IO per l’accesso ai servizi pubblici digitali), che ormai contano effettivamente milioni di fruitori. Si sono però ignorati, o messi in secondo piano, i problemi strutturali; i problemi più critici risiedono invece nel back-end, cioè in tutto quello che concerne la struttura e l’organizzazione dei processi e dei sistemi informatici di supporto. È questa impostazione che limita fortemente la possibilità di creare servizi più evoluti, e che non consente di eliminare gli adempimenti che l’amministrazione rovescia sui cittadini, con il risultato che tuttora solo il 32% degli italiani utilizza attivamente i servizi di e-government, contro il 67% della media UE.

Un passaggio fondamentale previsto nei piani del Governo, anche in funzione del PNRR, sarà la migrazione dei registri di base in un ambiente cloud sicuro e la costituzione del Polo Strategico Nazionale (PSN), gestito da un fornitore selezionato con una gara europea; lo sviluppo di un centro di infrastrutture informativo-digitali basate sul cloud consentirà l’elaborazione di grandi quantità di dati per l’erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese; non sarà tuttavia sufficiente senza la piena interoperabilità e condivisione delle informazioni tra le PA. A questa esigenza risponderà la piattaforma nazionale dati digitali, che integrerà i set di dati disponibili (dai registri fondiari, i data set del welfare gestiti da INPS e INAIL, i dati delle Camere di Commercio) mettendoli in grado di dialogare tra loro.

Anche a livello delle amministrazioni territoriali è in corso uno sforzo analogo: nella Regione Campania, ad esempio, Il Piano di Rafforzamento dei Servizi Pubblici per il Lavoro ha tracciato le principali linee di evoluzione del sistema quale porta di accesso agli utenti e ai soggetti attivi all’interno del mercato del lavoro. In tale direzione, la Giunta Regionale con deliberazione n. 180 del 28/03/2018 ha dato avvio agli interventi di implementazione di una piattaforma unitaria in tecnologia Open Source, denominata “SILF Campania”. Questi interventi riguardano l’omogeneizzazione e la reingegnerizzazione dei sistemi precedentemente utilizzati (SIL/CO/ClicLavoro e SIMONA/Avvisi e Bandi/Accreditamento); è inoltre previsto l’assessment delle basi dati per la modellazione e realizzazione di una base dati centralizzata. In questo modo la Regione Campania perverrà alla realizzazione di un sistema di analisi statistica con funzioni di Osservatorio del mercato del lavoro e al nuovo Portale Unificato, con l’integrazione dei sistemi e piattaforme trasversali regionali.

Decenni di esperienza nel settore privato e nel settore pubblico hanno dimostrato che non si innova semplicemente installando computer dove prima non c’erano, diffondendo l’utilizzo di nuovi software o migliorando le infrastrutture di base: pensare di affrontare queste sfide con la sola adozione delle tecnologie informatiche, la digitalizzazione dei processi e l’automazione delle operazioni, viste come key weapon, arma strategica, rischia di non essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo e pone le premesse per le peggiori delusioni. È invece necessario un complesso, articolato e multidisciplinare processo di change-management, che attui una progettazione integrata di tecnologie, organizzazione, lavoro, con la partecipazione propositiva degli stakeholders coinvolti nei processi di innovazione: cittadini, imprese, mondo del lavoro, mondo dell’istruzione.

In questo processo di cambiamento, la PA e le imprese sono soggetti complementari nei processi di trasformazione digitale di tutto il Paese. Le stesse imprese private soffrono di numerose criticità che derivano dalla loro piccola dimensione, dalla limitata capacità di investimento e dalla scarsità di competenze presenti sul mercato: grazie ai programmi di questi ultimi anni (Industria 4.0 in primis), molte aziende sono entrate nel mondo delle tecnologie digitali anche se esse stesse non ne sfruttano completamente il potenziale.

Come costruire questo rapporto virtuoso tra i due mondi? Innanzitutto, bisogna superare gli stereotipi che nel tempo si sono consolidati. L’impresa privata è considerata da tutti come una forza innovativa e coraggiosa, mentre la PA è bollata spesso come inerziale, indispensabile per aspetti basilari della convivenza sociale ma molto spesso troppo pesante per imprimere accelerazioni all’economia del paese e concretizzarne la capacità di innovare. Diversi esempi mostrano che questa dicotomia, questo pregiudizio non è sempre vero. Numerose innovazioni, anche a livello internazionale, sono state realizzate da PA coraggiose che con forte spirito imprenditoriale hanno lavorato efficacemente con le imprese private, guidandole e sapendo gestire i relativi rischi.

La PA deve imparare a collaborare maggiormente con le imprese e uno strumento chiave è il procurement pubblico, che sembra ancora vittima di una percezione negativa che lo vede come fonte di inefficienza se non di corruzione, piuttosto che di innovazione.

Il mondo dell’offerta digitale per la PA è caratterizzato da scarsa concorrenza e troppa concentrazione in pochi attori; questa taglia fuori molte imprese del comparto ICT e rischia di escludere le più innovative e promettenti. Sulla base dei dati forniti da ZeroUno, rivista specializzata di settore, solo il 15% dei fornitori ICT presenti in Italia collabora con la PA, mentre nel caso della spesa recente (SPID; PagoPa, ANPR) i primi 10 fornitori cumulano il 60% della spesa.

Il modello verso cui andare è quello che viene definito procurement strategico, in cui l’acquisizione di un bene o servizio da parte della PA va oltre il semplice soddisfacimento di uno specifico bisogno e produce spillover, ricadute, che nel tempo hanno un effetto positivo sull’economia del Paese e in taluni sull’intera società; talvolta le ricadute si manifestano “serendipicamente” in ambiti applicativi e domini assolutamente non previsti al momento del varo dei programmi.

Negli Stati Uniti questo ruolo è rivestito storicamente dai programmi militari e dai grandi progetti di esplorazione dello spazio; anche in Italia si contano casi di successo in cui le cose sono andate esattamente in questa direzione: la costruzione della rete autostradale negli anni Cinquanta e Sessanta, in epoca più recente la rete dell’alta Velocità (dalle innovazione del Pendolino allo sviluppo dei sistemi informatici di sicurezza del traffico degli ultimi anni), come pure il tribolato progetto MOSE a Venezia, che ha sicuramente rappresentato un’importante sfida ingegneristica.

È evidente che devono essere costruite, con l’apporto del mondo pubblico e del mondo privato, le condizioni fondamentali per il funzionamento di questo modello:

  • innanzitutto, una disponibilità di risorse da investire sul medio-lungo periodo e non solo per operazioni di breve termine: questa condizione può ritenersi soddisfatta dall’orizzonte temporale del PNRR, fissato nel 2026, e ancor più grazie alle risorse disponibile nel Fondo Complementare del PNRR;
  • una committenza pubblica competente e lungimirante, che abbia obiettivi chiari e operi in una prospettiva di medio periodo e guardi agli effetti della spesa sull’intero sistema Paese;
  • una capacità di risposta, da parte del sistema economico del Paese, orientata alla costruzione dell’ecosistema dell’innovazione, capace di rispondere con risorse e competenze ai più alti livelli alle sfide poste dalla committenza pubblica.

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