Pubblica amministrazione Autonomia, efficienza e coesione: la proposta della Campania

Autonomia, efficienza e coesione: la proposta della Campania

Intervista all’Assessore regionale al bilancio Ettore Cinque che chiede l'avvio di un'operazione verità: Prima Lep e fabbisogni standard

Di Francesco Avati

Intervista all’Assessore regionale al bilancio Ettore Cinque che chiede l’avvio di un’operazione verità: Prima Lep e fabbisogni standard

Assessore Cinque, quello dell’Autonomia differenziata oggi è uno degli argomenti di più stretta attualità politica. Un anno fa però non era così. Nel dibattito nazionale si è iniziato a parlare seriamente di questo tema nei primi giorni del 2019, in seguito ad una lettera del presidente De Luca al premier Giuseppe Conte. Con la missiva la Campania lanciava un allarme sugli accordi che sembravano essere in fase di concretizzazione tra le Regioni del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna e il Governo. Qual era il rischio allora?

“Il rischio era quello che le intese nascessero e si sviluppassero al di fuori della cornice costituzionale. Chiariamo subito: l’autonomia differenziata è un’ipotesi prevista dal nostro ordinamento, precisamente al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Quegli accordi, però, a nostro avviso, pur muovendosi nell’ottica del conseguimento di più ampi margini di autonomia amministrativa, legislativa e finanziaria, non tenevano in conto di un altro articolo molto importante della nostra carta costituzionale, il 119, secondo il quale tutto quel processo andava inquadrato all’interno di un sistema di principi di perequazione, di coesione nazionale, di solidarietà”.

 

Ci spieghi meglio.

“Semplice: se diamo la possibilità ad alcune regioni di ottenere maggiore autonomia finanziaria, amministrativa e legislativa, dobbiamo poi anche garantire ad altre regioni che hanno minori capacità fiscali di avere il necessario accompagnamento. Occorreva ragionare su questo. Oltretutto quel dibattito iniziato nella scorsa legislatura e ripreso col Governo giallo-verde si stava sviluppando in un silenzio assordante, direi un po’ alla chetichella, cioè senza quella discussione pubblica, ampia, aperta che temi così rilevanti invece necessitavano. Non si dimentichi che stiamo parlando delle tre regioni che da sole producono più o meno il 45% del PIL del nostro paese”.

 

Era a rischio il futuro del Mezzogiorno d’Italia?

“Un progetto autonomista spinto e velocizzato senza i contrappesi perequativi e di coesione nazionale poteva mettere a repentaglio l’unità nazionale e anche la tenuta degli equilibri di finanza pubblica più generalmente intesi. È di fronte a questo pericolo che si inserisce l’iniziativa forte del presidente De Luca che con quella lettera non solo chiese formalmente di essere audito ma anche l’apertura di un dibattito aperto nei luoghi deputati, in conferenza dei presidenti, in Parlamento. Lo fece anche perché tutte le interlocuzioni che stavano portando agli accordi citati erano segretate e dunque noi non sapevamo su che basi e su quali specifiche condizioni di attuazione Regioni e Governo stavano ragionando”. Dopo quella lettera si iniziò a parlare anche sui giornali di “secessione dei ricchi”.

 

Eppure, le Regioni del Nord che avevano proposto l’autonomia differenziata e la stavano concretizzando hanno sempre sostenuto, e continuano a sostenere, di non voler togliere risorse al Mezzogiorno né di volere attentare all’unità nazionale. A conti fatti è proprio così?

“Diciamo chiaramente – anche perché è agli atti ufficiali, sia nei documenti approvati nei consigli regionali di alcune di queste regioni che nelle campagne referendarie svolte in Veneto e Lombardia – che tutto ruota intorno alla richiesta di trattenere maggiori risorse fiscali sui propri territori. L’equazione è molto semplice: chiediamo più funzioni, ma queste funzioni costano di più rispetto a quanto paghiamo oggi, però abbiamo capacità fiscale che al momento retrocediamo allo stato centrale, dunque tratteniamo sul nostro territorio aliquote di queste imposte per finanziare le maggiori funzioni che stiamo chiedendo. Quindi, il motore di tutto questo, come è normale che sia, è stato di tipo finanziario. Ma mi lasci dire anche un’altra cosa”.

 

Dica.

“Penso che oggi siamo in una fase nuova. L’attuale governo ha ripreso le fila di questo progetto di autonomia differenziata capovolgendo il paradigma e facendo rientrare la discussione in un’ottica di perequazione e di coesione. Per cui in questo momento abbiamo un po’ tutti il dovere di essere lungimiranti e responsabili. Dobbiamo cioè guardare in avanti e trovare i punti di contatto che sicuramente ci sono tra Nord e Sud”.

 

Ma che fino a oggi sembrano non esserci stati.

“Forse perché nel dibattito che abbiamo alle nostre spalle si è parlato molto – anche troppo – dei residui fiscali e poco invece dell’efficienza amministrativa. Mettendo questo tema al centro del confronto sono convinto che sarà più facile trovare sintonia tra tutti: Veneto, Lombardia, Emilia e, perché no, anche qualche regione del Sud come la Campania che si candida a diventare modello di buon governo”.

 

In questo dibattito la Campania è entrata con una sua proposta specifica. Ci spiega nel dettaglio ciò che la Regione proponeva e propone ancora a livello nazionale?

“Con la delibera di indirizzo politico programmatico approvata in giunta abbiamo fissato 10 punti, posti poi all’attenzione del Governo, con i quali – la semplifico un po’ – abbiamo chiesto un’operazione verità sui conti pubblici. Perché troppo spesso si sentono litanie del tipo ‘il Mezzogiorno spreca’, ‘al Nord siamo virtuosi’, ‘al Mezzogiorno arrivano più risorse di quelle che dovrebbe avere’. Grazie a Dio in Italia esistono importantissimi istituti di statistica, gli uffici parlamentari di bilancio, la Banca d’Italia, organismi autorevoli, terzi e indipendenti. Per cui abbiamo detto: scopriamo le carte, guardiamo i numeri, facciamo un’analisi trasparente della situazione e poi iniziamo a parlare di autonomia differenziata”.

 

In che modo?

“Per noi – ma, mi pare di capire, anche per questo governo – il percorso è semplice: prima si fissano i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, per i servizi pubblici di rilevanza nazionale e strategica, poi si calcolano i fabbisogni standard di quei Lep e solo allora si inizia a ragionare di autonomia differenziata restituendo centralità al Parlamento di questo Paese. Perché ciò che non abbiamo ancora detto è che le ipotesi di accordo finora portate avanti prevedevano che le Camere potessero soltanto ratificare quanto pattuito tra governo nazionale e singola Regione, una sorta di prendere o lasciare alla stregua di quanto accade nella nostra Costituzione per le intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Una cosa del tutto incomprensibile e inaccettabile”.

 

Si è parlato finora soprattutto di risorse. Ma è solo un problema di soldi o c’è anche altro?

“Non è certo solo una questione di soldi. Vede, ci sono assi portanti della cultura unitaria del nostro paese che vanno assolutamente salvaguardati. Tra questi l’Istruzione e la Sanità. Il solo pensare che un insegnante possa guadagnare uno stipendio diverso a seconda della regione in cui viene impiegato in qualche modo mina alle radici il principio di unità nazionale perché crea una competizione tra territori. Ciò non vuol dire escludere qualsiasi ipotesi di maggiore autonomia sui programmi scolastici, che possono essere adattati ai contesti, o nel rapporto tra scuola e formazione professionale, ma la cultura del sistema scolastico nazionale va sicuramente difesa. Stesso discorso vale per la Sanità che è forse la materia più regionalizzata, al punto che in questi anni si sono sviluppati 21 sistemi sanitari diversi. Andare a spingere ulteriormente sul tasto dell’autonomia, addirittura prevedendo scuole di specializzazione regionalizzate e una retribuzione dei medici differenziata a seconda dei contesti, significa anche in questo caso smembrare totalmente il Servizio Sanitario Nazionale, che è un patrimonio di questo paese e una grande conquista sociale da tenersi stretta”.

 

Prima ha fatto cenno agli sviluppi futuri. Recentemente c’è anche stato un incontro col ministro. Su quali basi partirà questo confronto che pare dover resettare un po’ la situazione che si è determinata oggi?

“Il ministro Boccia, come la Campania aveva proposto, ha riportato il discorso in una sede più ampia e partecipata. È venuto in conferenza dei presidenti, ci ha fatto visita in Regione e ha chiesto a tutte le Regioni di cogliere la sfida dell’efficienza. Il percorso che si è fatto in precedenza, sia chiaro, non si annulla. Noi, come il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna, abbiamo già avuto diversi incontri tecnici. Il lavoro non si butta. Il ministro però è stato molto chiaro nel dire che il paradigma di questo processo verrà in qualche modo capovolto. Nel senso che prima si metterà mano ad una cornice regolamentare valida per tutti, all’interno della quale si darà piena visibilità e attuazione anche agli strumenti della perequazione e della coesione nazionale. Poi si fisseranno finalmente i Lep, che in questo Paese mancano da ormai da quasi un ventennio, si individueranno i fabbisogni standard e solo al termine di questo percorso si arriverà a siglare le intese con le singole regioni”.

 

Con quale differenza rispetto allo schema seguito fino a oggi?

“La differenza è che a quel punto, in un quadro più chiaro, la differenziazione nell’Autonomia di ciascuna regione potrà riguardare aspetti che veramente sono premianti delle specificità di quei territori. Pensi che il Veneto ha avanzato la richiesta di autonomia su 23 materie, ossia su tutte le materie possibili e immaginabili. In questo modo è come se avesse di fatto, surrettiziamente, voluto chiedere di diventare una Regione a statuto speciale ma questo ovviamente non è possibile nel nostro quadro costituzionale”.

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