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Internet e noi: fra algoritmi, Big Data e i colossi del web, siamo davvero liberi?

di Ettore De Lorenzo

Internet ci rende stupidi? Se lo chiedeva dieci anni fa Nicholas Carr, autore di un volume che è poi diventato un best seller. Eravamo al principio di una nuova era, dominata dai social network e dagli algoritmi, dai big data e dagli smartphone, che cominciavano a diventare un vero e proprio prolungamento delle nostre mani e della nostra mente. La domanda che si poneva Carr era semplice: cosa sarà dell’homo sapiens una volta entrato nell’era digitale? Saprà mantenere una coscienza critica rispetto alla vita che lo circonda? Saprà conservare un approccio libero alla realtà che vive? Saprà mantenere una salda consapevolezza delle differenze tra distanza fisica e distanza virtuale? Riuscirà, insomma, l’uomo a proteggere la sua capacità di analizzare profondamente notizie, fatti, opinioni, accadimenti? A ben vedere, la domanda che dieci anni fa si poneva Carr oggi è più attuale che mai. Le nostre vite sono governate da algoritmi: ci alziamo la mattina e controlliamo i social, convinti di essere gli assoluti proprietari dello spazio che ci siamo costruiti nel web. E invece non è così. I destinatari dei nostri messaggi non li decidiamo noi ma, appunto, gli algoritmi, sempre più precisi e “intelligenti”. Pensate, tanto per fare un esempio, che solo nel 2020 Google ha modificato il proprio algoritmo quasi 5mila volte, andando incontro alle esigenze dei navigatori. Cosa significa questo? Semplicemente che il campo di ricerca si stringe sempre di più, perché gli algoritmi non fanno altro che esaltare le nostre abitudini mettendoci su binari comodi e sicuri. Dunque, perché lamentarsi se questi strumenti ci aiutano ad avere esattamente quello che vogliamo e ad arrivare proprio dove volevamo andare? In fondo ci semplificano la vita, aiutandoci a orientarci sempre meglio tra i nostri desideri, le nostre idee, e mettendoci in contatto, attraverso i social, con le persone che più o meno condividono quello che pensiamo e le cose in cui crediamo. Persino gli acquisti diventano più semplici. Tutti sapete, avendolo sperimentato tante volte, che le tracce che lasciamo in rete costruiscono dei giganteschi serbatoi di dati in grado di creare “profilazioni” precisissime dei nostri comportamenti e delle nostre abitudini: se compriamo un paio di scarpe o una tv, un frigorifero o un viaggio, la rete ci continuerà a proporre scarpe, tv, frigoriferi e viaggi molto simili a quelli che abbiamo già acquistato. Sembra una cosa buona, no? Siamo certi in questo modo di andare sul sicuro.

La stessa cosa avviene con le opinioni: gli amici che risponderanno a un nostro post su Facebook saranno infatti tutti o quasi d’accordo con la nostra opinione, la rinforzeranno e la divulgheranno a loro volta, dandoci sempre la sensazione di essere nel giusto. Ma è davvero così? In verità, non proprio. Ulisse, che con il suo viaggio ci ha consegnato gli archetipi dell’uomo moderno, ci ha infatti insegnato che l’unico modo per scoprire qualcosa di nuovo è osare, anche rischiando di perdersi. Anzi, è proprio perdendosi che si impara di più, perché si entra in contatto con parti di noi non conosciute e se ne sperimentano le reazioni, i comportamenti, le paure, i desideri. Ulisse ci ha trasmesso un concetto decisivo per lo sviluppo dell’essere umano: non può esserci evoluzione senza scoperta, non può esserci scoperta senza rischio. Anche le Americhe furono scoperte cercando le Indie, ed è utile ricordare che gran parte delle più importanti scoperte scientifiche sono avvenute cercando altro, quasi per caso, per incidente. Ecco, la domanda che dobbiamo porci oggi è proprio questa: la rete ci consente di perderci? Il web favorisce il confronto tra idee diverse? Le grandi scoperte (interiori e sociali) e i grandi cambiamenti sono ancora possibili ai tempi del pensiero globale? Oppure è già tutto deciso e preordinato da un algoritmo che ci porta dove vuole lui (e dove, in base alle nostre scelte precedenti, si presume noi troviamo la nostra gratificazione)? La domanda che ci facciamo, insomma, è di quelle importanti: siamo davvero liberi?

Naturalmente non è facile rispondere, perché apparentemente non abbiamo mai avuto tanta libertà come quella di cui disponiamo oggi. Ma è davvero così? Siamo davvero così liberi di scegliere oppure siamo manipolati e guidati da freddi algoritmi che altro non fanno che chiudere i nostri orizzonti facendoceli però sembrare ancora più belli e più grandi?

In questo deciso cambio di scenario, nel quale in sostanza ci sentiamo tutti più liberi ma in realtà siamo sempre più manipolati, si aggiungono poi altri pericoli, dei quali è impossibile non tenere conto. Uno di questi, in particolare, sta modificando profondamente il nostro modo di interagire con la realtà, ed è relativo alla velocità e alla facilità con cui riusciamo ormai ad ottenere le informazioni che ci interessano attraverso il web. La nostra comunicazione è diventata sempre più immediata, quasi in real time, e non conosce più confini o distanze. In un attimo posso comunicare con chiunque viva su questo pianeta anche se a migliaia di chilometri di distanza. Tutto è diventato immediato, rapidissimo, accelerato, e comunicare non è mai stato così facile e veloce. Ma cosa stiamo sacrificando sull’altare della velocità? Beh, sembra evidente che la vittima di questi processi così veloci sia proprio la profondità di analisi. Non c’è più tempo, infatti, per approfondire, e neppure ci sembra importante farlo. Una volta acquisita un’informazione, rapidissimamente, non la mettiamo in discussione, non la confrontiamo con idee opposte e la incameriamo come vera, senza possibilità di approfondirla, senza cioè approcciarci alla realtà con spirito critico. Questa velocità sempre più spinta di acquisizione e scambio di informazioni sta modificando un po’ alla volta il nostro cervello, disabituandolo a cercare la verità nelle pieghe delle informazioni che apprendiamo. Insomma, ci vengono proposte teorie e merci, idee e beni di consumo che già sappiamo apprezzare (perché l’abbiamo fatto in passato) ma questo ci impedisce di indagare nel profondo se sia davvero ciò di cui abbiamo bisogno. La velocità è diventata un mito del nostro tempo, ma, come afferma il neuroscienziato Lamberto Maffei, una vita dedicata allo studio dell’ottica e dei campi visivi, “se proviamo a leggere i nomi delle stazioni mentre siamo in viaggio su un treno in corsa non saremmo in grado di farlo, perché il nostro cervello non riesce a sviluppare una visione corretta a quella velocità”. E allora la domanda che è corretto porsi è: quante stazioni ci stiamo perdendo correndo e percorrendo la vita così rapidamente? E, soprattutto, quanta capacità di analisi stiamo perdendo se non riusciamo più a fermarci per approfondire la realtà che la vita ci mette di fronte?

La supervelocità, unita alla impossibilità di “perdersi”, crea una specie di bolla, dentro la quale ci sentiamo più sicuri e più coscienti, ma in realtà questa è solo un’illusione. La conseguenza del vivere in questa bolla così gratificante è proprio la sensazione di non dover andare a cercare fuori quello che ci serve, perché abbiamo ogni giorno conferme della bontà delle nostre scelte. Ma, naturalmente, sono scelte indotte e in qualche modo pilotate. Ognuno, oggi, si sente padrone del proprio spazio in rete, e attraverso i social fortifica anche la sensazione di stare sempre dalla parte giusta, visto che aggrega quasi solo consensi. Questa illusione produce un grave distacco dalla realtà “reale” e l’illusione di possedere la verità da parte di chiunque. Insomma, Internet gioca un ruolo determinante nella costruzione di un mondo in cui ognuno crede di stare dalla parte giusta, alimentando una pericolosissima autoreferenzialità e, soprattutto, erigendo una società basata sull’iper-relativismo. Questa illusione è un po’ l’oppio dei popoli, e si è sostituita alla religione, che infatti nel mondo più sviluppato e avanzato tecnologicamente perde fedeli ogni giorno che passa.

Un’altra questione che contribuisce a minare e a comprimere la nostra capacità di esprimere pensiero critico è il modo in cui fruiamo delle informazioni sul web. In nome della velocità, i post (e gli articoli) devono essere sempre più brevi, perché altrimenti si perde l’attenzione del lettore, e questo non fa altro che alimentare banalizzazioni e semplificazioni anche di realtà molto complesse per le quali ci vorrebbero anni di studio per una corretta analisi. Non è un caso che negli ultimi anni, il mezzo più usato per comunicare è il video. Oggi, infatti, le parole sembrano contare sempre di meno, mentre acquisisce un valore sempre più alto il messaggio che arriva attraverso il video. C’è un tutorial per ogni esigenza, e persino la scuola si serve sempre di più di immagini e sempre meno di parole per trasferire conoscenza agli studenti.

Comunichiamo ormai attraverso strumenti sempre più veloci e immediati. Pensate a YouTube, la più immensa televisione del mondo. I numeri sono impressionanti: ogni giorno, tanto per citarne alcuni, vengono visualizzati un bilione di ore di video dalla piattaforma di Google. Ma forse un bilione non vi dice granché: stiamo parlando di 114.155 anni di video visionati ogni giorno da utenti in ogni parte del mondo, quasi la metà del tempo – per intenderci – che gli esseri umani sono esistiti sulla Terra. Ogni santo giorno! Divisi per singoli abitanti del pianeta, ognuno di noi in pratica guarda in media circa un’ora al giorno di video. Ora, sempre secondo il professor Maffei, è chiaro che la lettura e la visione dei video lasciano in noi umani sedimenti di conoscenza molto diversi tra loro: le parole rimangono scolpite nella nostra mente e alimentano pensiero critico, mentre i video scivolano via molto più veloci offrendoci molte meno possibilità di analisi. Il video (l’immagine) ha a che fare con la parte più istintuale di noi, mentre le parole forniscono carburante prezioso per sviluppare pensieri complessi. Ma la complessità, evidentemente, non interessa più a nessuno: troppo faticosa, troppo impegnativa, e perché fare tutta questa fatica se abbiamo la possibilità di ricevere risposte immediate (e gratificanti) alle nostre domande?

Dunque, Internet, tra le tante meravigliose opportunità che ci offre, ci mette anche davanti a questi pericoli. Anzi, ci ha già profondamente cambiati, producendo illusioni di conoscenza, polarizzando le opinioni, relativizzando ogni verità, e soprattutto disgregando i corpi sociali.

Ma a chi giova tutto questo? Beh, è evidente chi detiene il possesso delle tecnologie digitali, in questo momento storico, acquisisce una posizione di assoluto dominio concentrando e accumulando un potere abnorme. Non è un caso che ancora oggi si faccia fatica a far pagare persino le tasse ai colossi del web. Insomma, la crescita vertiginosa di Facebook, Amazon, Twitter, Google ecc., ha sviluppato una concentrazione di potere e una capacità di controllo sociale mai visti prima. Non a caso, i proprietari delle grandi company digitali sono diventati i veri padroni del mondo, sia in termini economici (scalzando in pochi anni i produttori di beni materiali), che per la loro capacità di orientare e manipolare le masse, dividendole e disgregando i corpi sociali. Da questo punto vista, il colpo finale potrebbe essere arrivato proprio con la pandemia, che ha visto un’accelerazione dei processi di smart working, in pratica l’ultima mazzata all’unità delle classi lavoratrici, che ormai non si percepiscono più come masse di persone ma come insieme di solitudini.

I Grandi player tecnologici, insomma, si stanno pian piano prendendo il mondo, lo stanno riorientando, modificando i nostri comportamenti e le nostre relazioni, e infine il nostro stesso modo di pensare. Tutto ciò mentre il potere di un tempo, quello della politica, diventa sempre meno consistente e sempre più illusorio. Come afferma il sociologo Carlo Bordoni, nel suo saggio “Fine del mondo liquido”: “Oggi che il diritto alla parola non si nega a nessuno, la conseguenza di una così vasta diffusione della libertà di espressione è lo svuotamento del potere della parola. (…). Che politica e potere abbiano divorziato, informando la globalizzazione di questo dualismo inconciliabile, è noto da tempo. Al momento del divorzio, la parola è restata nell’ambito della politica, lasciando il potere muto. Abbiamo dunque una politica che mantiene il diritto alla parola, ma senza capacità di agire, e un potere privato della parola, che agisce in silenzio”.

Dunque, la mappa del potere nel millennio che è appena cominciato è cambiata profondamente, nel giro di pochissimo tempo. Il rischio più grande, e già in qualche modo presente, è la più grande manipolazione di massa che sia mai potuta esistere nel nostro mondo, un ruolo che fino a qualche secolo fa solo le religioni avevano messo in campo con tanta potenza ed efficacia.

Cosa fare, allora? Demonizzare Internet non avrebbe senso, perché indietro non si torna e le conquiste tecnologiche non sono mai arretrate di un millimetro nel corso della storia. E, d’altra parte, il web e le tecnologie digitali in tantissimi altri ambiti hanno offerto negli ultimi anni soluzioni straordinarie per tantissimi problemi che affliggevano l’umanità. Di cosa abbiamo bisogno, allora? Mi si consenta di fare un piccolo parallelo storico, a questo punto. Il nostro tempo, infatti, mi appare molto simile ad un altro periodo storico, quello delle monarchie assolute. Nel XVII secolo un re poteva fare quello che voleva, non esisteva il diritto, non esisteva la legge se non quella emanata dal sovrano di turno. Un potere assoluto e senza regole che ricorda molto quello dei vari Bezos o Zuckerberg del nostro tempo. Quel potere assoluto portò però alla nascita dell’era dei Lumi, ovvero della ragione, intesa come chiave etica per redistribuire poteri e ricchezze in un mondo profondamente diseguale. Oggi abbiamo bisogno, insomma, di un nuovo Illuminismo, per regolare attraverso l’etica un mondo, quello virtuale, che abitiamo da così poco tempo e che al momento si fa strada senza limitazioni di sorta e senza rispondere a nessuno.

Come afferma Edgar Morin, il più importante filosofo vivente della complessità, “Internet è ormai parte integrante di tutte le sfere del sapere, della vita e della società e rispecchia la complessità stessa dell’uomo. Abbraccia la conoscenza, la menzogna, la verità, l’illusione, la solidarietà e consente qualsiasi tipo di comunicazione – legale o illegale, utile o nociva. Ciò che Esopo disse a proposito della lingua vale oggi per la rete: concerne tanto il bene quanto il male, tanto il vero quanto il falso”. Dunque, nessuna censura e nessuna chiusura verso la rete, ma la convinzione che il web non sia neutro, ma che vada regolato con valori che non siano solo la ricerca del profitto, o del proprio “posto al sole”. “La rete – dice ancora Morin – è un’entità in cui sono già attivi innumerevoli fermenti di solidarietà e creatività, ma è un’entità ancora in uno stadio primitivo, analoga alla foresta amazzonica in cui si trovano fiori e piante magnifiche ma anche pericoli gravi, pacifiche tribù d’indiani e predatori avidi di profitti”. In definitiva, secondo Morin, “Internet non fa altro che incarnare la complessità stessa dell’uomo. In un certo senso è in anticipo rispetto all’umanità. Stiamo attraversando un periodo di forte accelerazione verso la realizzazione di un’era planetaria (…). E tuttavia, non si è ancora realizzata quella comunità di istituzioni e di governo che la condivisione di un destino comune impone. In troppo pochi hanno la consapevolezza di questo destino comune. Occorre un nuovo umanesimo etico e sociale che sia composto di passione e ragione. Passione per l’umanità e per le sofferenze umane, ragione per non soccombere alla sola passione che senza ragione occulta ogni cosa e porta alla follia.

Umanesimo significa compassione per gli altri, vuol dire aiutare, vuol dire amore e comprensione. La modernità ci ha portato alla comunità del destino umano. L’universalismo oggi deve rispettare le diversità umane. L’umanesimo planetario è una necessità per uscire dalla siccità e dal sonnambulismo in cui ci troviamo. Senza, la terra rischia la disintegrazione”.

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