di Angelo Rughetti
Il dibattito sull’iter della riforma Calderoni tra pro e contro. Una questione costituzionale che tocca l’identità culturale del Paese, il rapporto mai semplice tra Stato e regioni e i complicati obiettivi di equità tra Nord e Sud
Non è soltanto una questione tecnico-giuridica, legislativa ed amministrativa. Il dibattito in corso sull’annunciata riforma dell’autonomia differenziata suscita interrogativi, discussioni, preoccupazioni che vanno oltre le questioni procedurali e formali. Sottende questioni sostanziali perché ad essere “differenziata”, ancora oggi, è l’organicità del Paese nato da un processo generativo che pose subito la necessità primaria di equilibrio tra Nord e Sud o, se si vuole, di una perequazione. La ritardata nascita delle regioni, 1970, rispetto alla previsione costituzionale, la dice lunga sulle resistenze frapposte a trovare una mediazione condivisa tra centralismo e localismo. La questione, prima ancora che istituzionale, è culturale e sociale. Non per caso nel 2001 ha avuto conclusione il processo di modifica del titolo V della Costituzione. Ma le riforme non sono mai neutre, si innestano nella Storia, esprimono un’idea di società. Dunque quale idea di società esprime la riforma in corso? E’ giusto chiedersi se essa sia una riforma che sostiene i principi di solidarietà e sussidiarietà o se scomponga la società italiana con posizioni di vantaggio senza interrogarsi sullo svantaggio che altri ne hanno.
Senza sballottare vessilli identitari e ricorrenze storiche e senza cedere all’idolatria dello Stato, si può mantenere una rotta nel complicatissimo dibattito di questi mesi sull’annunciata attuazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione se non si smarrisce il senso della Storia e la certezza che l’Italia è sì uno Stato fragile ma ha un’identità forte, pur nelle differenze. Tramontata ogni follia secessionista, archiviata l’idea delle macroregioni, l’autonomia regionale, questa volta nella forma differenziata, mira a ridefinire il rapporto tra Stato e regioni, rapporto che non è mai stato semplice e che, in verità, mai ha affrontato alla radice il tema delle “materie concorrenti”. Queste, anzi, hanno determinato nel corso degli anni lentezze, ricorsi alla Corte Costituzionale e conflitti. Con l’approvazione da parte del Senato del disegno di legge Calderoli siamo entrati nel vivo di un tragitto lungo e pieno di incognite, perché quell’aggiunta – differenziata – ha a che fare proprio con la questione delle competenze diverse tra le nostre regioni che secondo la riforma, dovrebbero essere riconosciute con il principio “del caso per caso” e con relativa differenza di fondi, competenze, mezzi e strumenti a disposizione. Quanto è concreto il rischio, come ha detto il Presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, che “l’autonomia differenziata danneggi l’Italia?”. E quanto è vero, come sostiene il padre della riforma, il ministro Roberto Calderoli, che essa sia la migliore garanzia per i Sud? Ma, soprattutto, oltre le valutazioni amministrative, sociali ed economiche che tenteremo di riassumere, che rischio c’è di disperdere quel sentimento di coesione nazionale che certo non si può irrobustire solo con un film su Mameli?
Cosa prevede la riforma
Il disegno di legge ha una natura procedurale, nel senso che delinea soltanto il percorso per attuare l’articolo 116 comma 3 della Costituzione. Quest’ultimo stabilisce che con legge dello Stato possono essere attribuite alle Regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle ventitré materie che già le Regioni condividono con lo Stato, quali la sanità, la scuola, le grandi reti di trasporto, la protezione civile. A differenza dell’autonomia riconosciuta negli Statuti speciali, l’autonomia ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, è circoscritta agli ambiti della legislazione concorrente e alle limitate materie della legislazione esclusiva. Lo strumento previsto dal disegno di legge per trasferire le funzioni è quello dell’intesa tra lo Stato e la Regione interessata, sentiti gli enti locali e la Conferenza unificata Stato-Regioni-città e autonomie locali, approvata con legge dello Stato. In pratica il Governo delinea l’intesa tra Stato e regione richiedente (che la riceve per approvazione), invia alle Camere un disegno di legge per autorizzarla, senza possibilità di modifiche, svuotando di fatto la funzione legislativa. C’è da dire che lo strumento dell’intesa non costituisce peraltro una novità assoluta. Infatti, già nel febbraio del 2018 il Governo Gentiloni ne sottoscrisse tre con la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna, ma l’accordo raggiunto per il trasferimento di alcune funzioni fu poi lasciato cadere. Anche in quell’occasione furono evocati scenari di disintegrazione dell’unità nazionale.
I Lep e la spesa storica
Punto chiave e pomo della discordia della nuova disciplina, strutturata in 11 articoli, è la parte relativa ai Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), oggetto di acceso dibattito parlamentare. In base alla Costituzione i Lep tutelano i “diritti civili e sociali” di cittadine e cittadini. La necessità di individuare le prestazioni minime garantite per tutto il territorio nazionale su 15 delle 23 materie previste dal dettato costituzionale è, dunque, elemento determinante per scongiurare un ulteriore divario tra le regioni del Nord, più avanti nella locomotiva Italia, e quelle del Meridione. Anche se, piccola digressione sullo stato economico del Paese, gli ultimi dati sulle piccole e medie imprese, indicano una maggiore vivacità di esse proprio nel Mezzogiorno d’Italia. Ma torniamo ai Lep. Per garantire coesione e scongiurare scatti in avanti di alcune regioni industrialmente più avanzate, è evidente che l’entità di questi finanziamenti andrebbe stabilita prima delle richieste di autonomia, in modo tale da avere chiaro il quadro delle risorse di cui ha bisogno ogni regione richiedente.
Ma secondo il disegno di legge le regioni potranno formulare un’intesa anche senza il decreto del presidente del Consiglio che dovrebbe stabilire l’entità dei Lep, distribuendo così i finanziamenti in base alla spesa storica nell’ambito specifico in cui chiedono l’autonomia. Su questo aspetto è soprattutto la Regione Campania ad aver suonato il campanello d’allarme.
Le questioni aperte
Sono due le grandi questioni aperte: l’ effetto sugli squilibri territoriali (l’equità) e l’effetto sulle implicazioni delle politiche pubbliche (l’equilibrio tra politiche nazionali e locali). Da qui la discussione sulle modalità di finanziamento delle richieste avanzate per prime da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e sulla necessità di salvaguardare chi risiede nelle altre regioni determinando i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il paese. La considerazione più ricorrente tra chi sostiene l’autonomia differenziata è che essa rappresenti solo un modo previsto dalla Costituzione per un regionalismo più consapevole e responsabile con effetti emulativi fra le Regioni, da cui i cittadini hanno tutto da guadagnare. In sostanza – è il ragionamento teorico – l’applicazione della clausola di asimmetria svilupperebbe “elementi di forte identità regionale e di competizione territoriale”. I comportamenti “virtuosi” di alcune Regioni costituirebbero un forte stimolo per le Regioni più arretrate per migliorare la qualità dei servizi offerti. Tutto ciò permetterebbe allo Stato di disporre di parametri concreti per la politica perequativa da realizzare. Inoltre, per quanto riguarda il rapporto tra gettito fiscale ed efficienza amministrativa, i fautori della riforma sostengono che ci sarebbero meno sprechi con un rapporto più stretto tra chi spende e chi ne beneficia (dimenticando, però che sono 20 anni che non si riescono a definire i Lep). Dal fronte dell’opposizione (che non è solo politico ma aggrega economisti, storici, giuristi) si sostiene che sarebbe violato il fondamentale principio della solidarietà economica e sociale. Gravi problemi ci sarebbero soprattutto per il sistema scolastico, per quello dei trasporti e per la sanità, accentuando le differenze e l’emigrazione di pazienti e professionisti dal Sud verso il Nord. La grande questione di fondo è che si sta mettendo in atto un processo di devoluzione di competenze così ampio (23 materie) e cosi diffuso (tutte le regioni) che nei fatti stravolge l’attuale assetto di poteri così cpme previsto dalla Carta fondamentale. Si tratta nella sostanza di una nuova forma di regionalismo e visto, con gli occhi dei cittadini, della creazione di un nuovo modello di relazioni fra organizzazione pubblica e comunità, persone e famiglie. Bisogna dunque riflettere sulla necessità che un progetto così ampio passi per una revisione della Costituzione ex art.138 e non attraverso un semplice processo legislativo con alla base degli accordi fra Stato e singola Regione.
C’è, infine, il grande pregiudizio. Quello più forte da scalfire. Per tornare da dove siamo partiti, la discussione giuridica e amministrativa sull’autonomia differenziata ne sottende un’altra, cruciale e pesante. Quella sulla “zavorra” Mezzogiorno, sull’idea, cioè, che stenta a risolversi, di una eterna inefficienza del Sud. E’ giusto chiedersi dove porta la riforma Calderoli. Soprattutto, a cosa serve una politica che accresce i vantaggi solo di alcuni?