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La Cultura per lo sviluppo economico, l’inclusione e l’innovazione sociale: il ruolo del POC

di Rosario Salvatore

Quando la Commissione europea aveva, per la prima volta, presentato il nuovo pacchetto di regolamenti destinati a governare la politica di Coesione per il 2021-2027, più di una voce si era levata a rimarcare la dissonante assenza – tra le priorità e gli obiettivi previsti – di due settori considerati strategici, almeno per il nostro paese: la Cultura e il Turismo.

Era il 2019 e nulla lasciava presagire quanto il mondo, di lì a poco, sarebbe stato stravolto e quanto le politiche di coesione stesse sarebbero mutate. A fronte dell’emergenza Covid la Commissione era intervenuta più volte ad allargare le maglie della programmazione dei fondi europei 2014-20, consentendo a Stati Membri e Regioni di intervenire a sostegno dei fabbisogni più urgenti, come pure alle necessità di ripresa.

Il blocco imposto dalla pandemia aveva avuto, come noto, ripercussioni profondissime sulla articolata rete di servizi che sta dietro il mondo della fruizione di beni o di attività turistico-culturali. Un mondo fatto di lavoratori e famiglie che da un giorno all’altro si erano ritrovati chiusi o inaccessibili, alle prese con la più grande crisi mai sperimentata dai tempi della Seconda guerra mondiale. I fondi strutturali, come detto, erano serviti a ristorare le chiusure, ma la Commissione non aveva potuto ignorare i rischi di lungo periodo sul sistema e, per questo, aveva proposto una modifica al Regolamento dei Fondi 2021-27 (peraltro non ancora approvato), introducendo la possibilità di finanziare interventi destinati alla cultura, alle attività culturali e al turismo (nell’ambito dell’OP4 destinato alle politiche sociali).

Un segno importante di attenzione al settore che ha portato con se quello che appare come un cambio di paradigma, per molti versi interessante e di prospettiva, che rischia, tuttavia, di ridurre ulteriormente il campo di eleggibilità degli interventi possibili. Alla luce del nuovo regolamento, nonché della declinazione dello stesso nell’Accordo di Partenariato nazionale, infatti, i principali risultati da conseguire con i fondi europei in ambito culturale dovranno essere riconnessi all’ampliamento della partecipazione culturale dei cittadini e al rafforzamento del ruolo dei settori culturali e creativi quali leve per l’incremento delle opportunità di cittadinanza attiva e di partecipazione civica, nonché per sperimentare forme di “welfare culturale”, inteso come un modello integrato di promozione del benessere e della crescita degli individui e delle comunità attraverso pratiche fondate sulla cultura e sul patrimonio culturale.

Per contro, nei precedenti cicli di programmazione era consentito l’utilizzo del FESR anche per investimenti per il restauro, recupero e ripristino di luoghi della cultura, o anche per la realizzazione di contenitori e spazi di conservazione e produzione culturale. L’idea per il futuro è di utilizzare le risorse del FESR, anche in sinergia con FSE+, per il sostegno ad iniziative – in campo culturale e creativo – aventi finalità di inclusione e innovazione sociale, ma con la capacità di rigenerare e rivitalizzare luoghi della cultura e del patrimonio o altri spazi pubblici o ad uso pubblico, che si trovano in stato di sottoutilizzo, degrado, o parziale abbandono, e che sono localizzati in contesti caratterizzati da particolari fragilità, disagio e marginalità sociali e territoriali.

Cambiamenti che stimolano alcune riflessioni. Anzitutto, sono tutt’altro che da sottovalutare le implicazioni positive, a cominciare dall’evidenza che la presenza, in contesti a rischio degrado, di infrastrutture culturali attive, che possano assumere forma di “presidi civici di prossimità”, potenzialmente in grado di innescare processi inclusivi e di contribuire alla resilienza di territori e comunità in particolari condizioni di fragilità. Sotto questo punto di vista, possiamo dire che, ad ogni buon conto, la legittima esigenza di intervenire a riqualificare beni culturali, pur in assenza di piani strategici di gestione e rivalorizzazione (sia di matrice sociale che socio-economica), se da un lato ha risposto a un fabbisogno urgente, dall’altro si è scontrato con l’impossibilità di utilizzare i fondi anche per il sostegno ai piani di gestione. In questo caso, si tratterebbe di approfondire una discussione che interessa, più in generale, la dicotomia tra la possibilità di finanziare con il FESR interventi a valere su Servizi di Interesse Economico Generale (SIEG) e il divieto di coprirne – almeno in parte – le spese di gestione, il che fa gravare sui bilanci dei beneficiari (in particolare gli EE.LL.) costi spesso insostenibili che rendono non appetibile l’intervento stesso. Per ora basti sottolineare l’esigenza di una progettazione e un’attuazione degli interventi sempre più sinergica a valere su più fondi, tra cui FSE+ che, a differenza del FESR, può sostenere le spese di gestione.

Va evidenziato un secondo elemento che nasce dalla differenza, non etimologica, tra patrimonio culturale, industrie culturali e cultura. Nel primo caso, come detto, a differenza che nel corso della programmazione 2014-20, non sarà più possibile finanziare sui fondi europei interventi di restauro/recupero, fatti salvi quelli destinati all’efficientamento energetico e alla messa in sicurezza dai rischi. Nel caso delle industrie culturali, la Commissione europea ha più volte ribadito che l’accento andasse posto sul concetto di “industria”, in quanto tale, e non anche sul settore di interesse, quasi a negare che la cultura (e la creatività) non abbiano caratteristiche peculiari, tali da giustificare interventi ad hoc.

Il tema vero che si pone è la possibilità di finanziare la Cultura, intesa come la facoltà di contribuire sia alla produzione/realizzazione di opere, sia anche alla fruibilità degli eventi di natura creativa e culturale. Cultura e creatività, per emergere, non necessitano solo di patrimonio, saperi e capacità – di cui la Campania è assolutamente ricca – ma anche del sostegno da parte del contesto socio-politico, di una dimensione organizzativa pubblica (e privata) che le incoraggi, di un’economia pubblica che, insieme ad apparati produttivi, investano su di esse: unire idee, abilità, talento con risorse, servizi e governo del territorio.

Si pone il tema di come continuare a contribuire ai settori del comparto culturale e, soprattutto, con quali risorse. Se, infatti, le strategie e le linee appaiono definite – sostegno a istituti culturali, musei, biblioteche, sistema dello spettacolo e dell’editoria; valorizzazione e promozione del patrimonio culturale e dei siti UNESCO – sono cronaca di questi giorni le manifestazioni e gli appelli all’urgenza dello sblocco delle risorse del Programma Operativo Complementare (POC) per gli anni 2021-2027. Quello Complementare è un programma alimentato con risorse nazionali – pari a poco meno di 1,3mld/€ – che derivano dalla ri-destinazione di una parte del cofinanziamento dei Fondi Europei, decisa in sede di negoziato con la Commissione Europea, al fine di consentire la definizione a livello regionale di un piano di investimenti atto sia ad assicurare il completamento di interventi del ciclo 2014-20 non conclusi, sia a contribuire agli investimenti in settori ritenuti strategici, ma la cui spesa non risulta ammissibile ai Fondi Europei, tra cui, appunto, la cultura.

Purtroppo – e senza giri di parole – il sostegno pubblico alla cultura, alle istituzioni culturali (quelle piccole che hanno voglia di crescere e farsi conoscere, così come quelle affermate, per consolidarsi ed espandersi), alla produzione creativa non è un vezzo (né uno spreco come qualcuno puntualmente ribadisce, quasi convinto che a furia di ripeterlo quell’assioma possa diventare vero), ma un investimento strategico funzionale sia alla promozione e valorizzazione del comparto, ma soprattutto per elevare il livello di attrazione di un territorio. Temi centrali per una regione capace di esprime un patrimonio (storico, artistico, archeologico, architettonico, archivistico) e un capitale (in termini di teatri, compagnie di spettacolo, musica e danza, operatori del cinema, festival, saperi e tradizioni, risorse naturali e paesaggistiche) invidiato e invidiabile e su cui operano quasi 22mila imprese (8% del totale nazionale) che producono valore aggiunto per 1,9mld/€ (quarto posto in Italia).

Dietro questi numeri – oltre a un patrimonio da tutelare, valorizzare e promuovere – ci sono professionisti, ci sono giovani e donne, ci sono famiglie intere che, a volte da generazioni, contribuiscono a tenere alta l’immagine della Campania. È anzitutto per loro che, senza indugio, vanno sbloccate le risorse del POC. Sbloccate e mobilitate per assicurare continuità e certezze ai lavoratori e per non disperdere quanto di buono fatto per valorizzare la bellezza e la ricchezza del nostro patrimonio, rendendolo tra i più apprezzati e visitati a livello mondiale.

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