di Luca Bianchi
Il doppio divario del Sud in Italia e dell’Italia in Europa; la rottura dell’equilibrio demografico; la debolezza delle politiche pubbliche nazionali. Sono questi i temi “nuovi” del ritardo di sviluppo dell’economia e della società del Mezzogiorno discussi nel Rapporto SVIMEZ 2019.
Tre fatti che, nel loro insieme, impongono un cambio di prospettiva nella lettura della stagnazione italiana e indicano una strada obbligata alle politiche: il recupero di una strategia nazionale capace di perseguire i due obiettivi complementari di fuoriuscita dalla stagnazione e della riduzione delle disuguaglianze.
Il doppio divario
È nei confini allargati di un’Europa sempre più diseguale e complessa che va calata la riflessione corrente sul ritardo italiano, non solo meridionale. Un ritardo della società e dell’economia nazionali che la SVIMEZ legge come doppio divario: il Nord e Sud del Paese sono bloccati nel panorama europeo, perciò l’Italia, tutta intera, si allontana dall’Europa. Mentre i nostri divari interni non accennano a diminuire.
Da molti anni, la distribuzione diseguale dei benefici connessi all’integrazione europea, senza il supporto di politiche economiche adeguate, convive con l’evidenza di un processo selettivo di diffusione della crescita economica e dello sviluppo sociale tra aree più sviluppate e regioni deboli; e persistono rilevanti divari di competitività tra sistemi produttivi nazionali e tra diverse regioni europee.
Il fatto relativamente nuovo con il quale, secondo la SVIMEZ, va aggiornata la geografia economica e sociale dell’Europa sta nelle crescenti dinamiche divergenti interne al suo core e alla sua periferia. Con il procedere dell’integrazione europea e la distribuzione diseguale dei suoi benefici tra territori che ne è seguita, la lettura centro-periferia della geografia europea è andata via via complicandosi, per effetto di una divaricazione tra «locomotive» a diversa velocità e tra nuovi Stati membri dell’Est e aree deboli dell’Europa mediterranea.
Entrambe le dinamiche hanno visto l’Italia dal lato dei perdenti, con responsabilità delle politiche nazionali che diventano sempre più evidenti con il passare degli anni. I dati, infatti, rivelano che tra il 2006 e il 2017 tutte le Regioni italiane, nessuna esclusa, hanno registrato un calo relativo del Pil per abitante (vedi Tabella 1).
Il nostro Nord non è più tra le locomotive d’Europa. Una parte non secondaria del suo sistema produttivo è diventata, di fatto, la periferia degli agglomerati dell’Europa centro-settentrionale che marciano a ritmi più sostenuti, ospitano produzioni manifatturiere fortemente specializzate e integrate col terziario, presentano un maggiore grado di finanziarizzazione, beneficiano di centri di ricerca e innovazione all’avanguardia, vantano sistemi di istruzione universitaria di livello internazionale, e sono supportate da efficaci politiche industriali attive.
Anche il ritardo meridionale va misurato nella cornice europea: l’economia meridionale si trova a competere, soprattutto dopo l’allargamento ad Est dell’Ue, con economie arretrate in forte crescita ed elevate potenzialità competitive. È rispetto a queste economie che il Sud ha perso terreno. Anche a causa dello svantaggio strutturale connesso alla sua appartenenza ad un’economia nazionale dove vige un carico fiscale elevatissimo rispetto a quello praticato nei paesi dell’Est Europa. L’accumulazione del ritardo del Mezzogiorno si associa alla concorrenza del dumping fiscale dei nuovi Stati membri. Le differenze nei livelli di tassazione del lavoro e del reddito di impresa tra paesi membri vengono evidenziate con continuità dai dati Eurostat, e rappresentano un fattore decisivo nel determinare la capacità di offrire un ambiente attrattivo per le attività produttive più mobili del Continente.
In definitiva, la divergenza interna al core e alla periferia dell’Ue sono il frutto del successo di due modelli alternativi di competizione: ricerca, innovazione e competenze nelle «vere locomotive» vs. contenimento dei costi nelle aree deboli dell’Europa dell’Est. In questo quadro, l’Italia si trova nella terra di mezzo di chi non può più permettersi di competere sui costi, una strada economicamente e socialmente insostenibile, e non è pronta a competere innovando e investendo sulle competenze perché ancora priva di uno «Stato innovatore» che supporti adeguatamente il sistema produttivo.
La rottura dell’equilibrio demografico
Per effetto della rottura dell’equilibrio demografico (bassa natalità, emigrazione di giovani, invecchiamento della popolazione), il Paese si ritrova, oggi, in una vera e propria trappola demografica. Le dinamiche demografiche avverse attraversano tutto il Paese ma si manifestano in maniera più drammatica nel Mezzogiorno che sperimenta una continua sottrazione di forze vitali. Ne risulta indebolita la struttura demografica. Sono a rischio le sorti dei piccoli e medi centri urbani e rurali delle sue aree interne, e quelle delle aree metropolitane le cui cinture periurbane costituiscono le fonti principali del deflusso migratorio dal Sud.
Entro i prossimi 47 anni il Paese si troverà con una popolazione molto più piccola e decisamente invecchiata, in particolare il Mezzogiorno è destinato a un lento e pesante declino demografico: nel 2065 la popolazione in età da lavoro diminuirà del 15% nel Centro-Nord e del 40% nel Mezzogiorno (Figura 1).
Il contrasto alla riduzione della popolazione attiva può venire soprattutto da politiche finalizzate ad accrescere la partecipazione al mercato del lavoro accompagnate da misure di sostegno alla domanda di lavoro espressa dal mondo produttivo. L’aumento del tasso di occupazione rappresenta l’unica misura in grado di ridurre significativamente gli effetti negativi sull’economia del Mezzogiorno della prevista dinamica demografica. Andrebbero perciò messe in campo misure finalizzate a conciliare le esigenze familiari con la crescita della partecipazione al mondo del lavoro. Si determinerebbe così un duplice effetto: aumento del prodotto interno lordo e con la maggiore disponibilità di reddito la ripresa della natalità.
La debolezza delle politiche pubbliche
Nell’ultimo ventennio, la politica economica nazionale ha disinvestito dal Mezzogiorno, ha svilito anziché valorizzare le sue interdipendenze con il Centro-Nord. Il progressivo disimpegno della leva nazionale delle politiche di riequilibrio territoriale ha prodotto conseguenze negative per l’intero Paese. Come si è verificato – per rimanere agli anni più recenti post-austerità – con la preferenza accordata ai trasferimenti anziché agli investimenti pubblici; una scelta che ha impedito di utilizzare i margini di manovra più ampi che si andavano aprendo nelle rigide regole della disciplina fiscale europea per perseguire gli obiettivi (complementari) della crescita nazionale e della riduzione dei divari interni. Nella ripresa del triennio 2015-2017 il sistema produttivo del Mezzogiorno si è reso protagonista di una reazione che l’ha tenuto agganciato alla sia pur debole crescita nazionale. Grazie dagli investimenti privati, soprattutto nell’industria. Un segnale, questo, non della vitalità di poche “eccellenze” sulle quali troppa retorica è stata spesa, ma di un tessuto imprenditoriale resiliente che ha resistito, ancorché assottigliato dalla crisi, mostrando di essere in grado di crescere e contribuire al rilancio dell’economia nazionale. Ma è mancato il contributo del settore pubblico alla ripresa, e questo l’ha resa debole e precaria. La spesa per consumi finali delle Amministrazioni Pubbliche ha segnato un ulteriore -0,6% nel 2018, proseguendo un processo di contrazione che, cumulato nel decennio 2008-2018, risulta pari a -8,6%, mentre nel Centro-Nord la crescita registrata è dell’1,4%. Questa è una delle cause principali, a dispetto dei luoghi comuni, che spiega la dinamica divergente tra le aree. E si è dimezzata la spesa pubblica in conto capitale nel Mezzogiorno (Tabella 3).
Invertire il trend calante degli investimenti pubblici al Sud vorrebbe dire iniziare a porre le basi per la risoluzione del noto problema del mancato rispetto del principio di addizionalità che stabilisce che, per assicurare un reale impatto economico, gli stanziamenti dei Fondi strutturali non possono sostituirsi alla spesa pubblica dello Stato membro. Al rispetto di questo principio, storicamente inattuato in Italia, siamo stati chiamati di recente dalle istituzioni europee.
Oggi sono consistenti le risorse potenzialmente disponibili con il nuovo ciclo della coesione europea, e quelle disponibili, di origine comunitaria e nazionale, ma da riattivare mobilitando maggiori competenze progettuali e ammnistrative delle amministrazioni centrali, regionali e locali. L’esperienza però insegna che l’abbondanza delle risorse si è ridotto troppo spesso ad un mero dato contabile utile solo a motivare nuovi annunci di Piani “straordinari” per il Sud dei quali poi puntualmente siamo stati costretti a rendicontare obiettivi di spesa non raggiunti, residui di risorse inutilizzate, e distrazioni di risorse verso altri interventi estranei all’obiettivo del riequilibrio territoriale. E troppo spesso e troppo superficialmente la mancata convergenza del Mezzogiorno è stata addebitata ai fallimenti della politica di coesione, ai suoi ritardi, alle sue inefficienze. Ma al problema della debolezza “interna” della politica di coesione si inserisce in una più ampia debolezza di una strategia di sviluppo dell’intero Paese. La politica di coesione non si è “aggiunta” alle politiche generali nazionali, le ha sostituite (parzialmente). È questa la debolezza che va sanata per rimettere la politica di coesione territoriale nelle condizioni di produrre i suoi effetti. La “straordinarietà” dell’intervento, oggi, dovrebbe coincidere proprio con un ritorno alla “normalità” del rapporto tra politica di coesione e politiche ordinarie.
Una strategia nazionale per uscire dalla stagnazione e ridurre le disuguaglianze
Secondo la SVIMEZ, per uscire dalla stagnazione italiana è necessario un diverso approccio al dualismo italiano. Una svolta dell’idea di Paese, non più divisiva ma unitaria, ricomponendo gli interesse nazionali, perché crescita e riduzione dei divari sono obiettivi da perseguire insieme. L’abbandono della ricetta indigesta di politiche diverse per le due parti del Paese sul binomio assistenza per il Sud e sviluppo per il Nord, è la premessa a un nuovo patto Nord-Sud che si concentri su alcune priorità nazionali in grado di riattivare le risorse potenziali presenti soprattutto nelle aree del Mezzogiorno.
La SVIMEZ propone di smarcarsi dalla lettura dell’aumento delle disuguaglianze esclusivamente legata al confine immutabile tra Nord e Sud. Questa lettura va «complicata» per recepire i mutamenti che in questi anni sono intervenuti: il Sud ha accentuato le sue differenziazioni interne, come è avvenuto nel Nord del Paese; la crisi ha fatto risalire lungo lo stivale il confine Nord-Sud; anche le regioni del Nord produttivo perdono posizioni nelle graduatorie delle regioni europee di sviluppo economico, sociale e di competitività; Nord e Sud sono accomunati dall’aumento delle disuguaglianze tra aree urbane e aree interne; nell’Italia intera le periferie dei grandi centri urbani sono attraversate dalle stesse emergenze sociali. Per tutto ciò la questione della coesione territoriale va collocata in quella più ampia, nazionale, della crescita e della coesione sociale, e le risposte non possono che basarsi su una visione unitaria del Paese.
Al centro dell’azione delle politiche va posta la valorizzazione delle complesse complementarietà che legano il sistema produttivo e sociale di Sud e Nord Italia, leggendo i rapporti tra le due aree con la lente di un’interdipendenza mutuamente benefica da riattivare con il supporto delle politiche. Economia e società del Mezzogiorno non sono realtà sganciate dall’Italia. Nord e Sud Italia sono legati da una fitta rete di rapporti commerciali, produttivi e finanziari che generano condizionamenti reciproci, determinando andamenti fortemente correlati delle rispettive economie.
Inevitabilmente i risultati economici e il progresso sociale di ciascuna di esse dipendono dal destino dell’altra. Perciò l’obiettivo della chiusura del divario Nord-Sud non può essere disgiunto da un disegno nazionale di rilancio della crescita. Intorno a un obiettivo prioritario: riattivare gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, prioritariamente nei settori delle infrastrutture sociali, ambientali e, in generale, per migliorare l’accesso ai diritti di cittadinanza. L’unica via «possibile» per il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa è tenere insieme le due parti del Paese in una strategia di crescita comune, archiviando la stagione delle soluzioni «per parti» per il Nord produttivo e il Sud assistito. Esistono importanti aree di disagio sociale anche al Nord, come esiste un sistema produttivo reattivo al Sud. Riattivare gli investimenti pubblici al Sud è il modo più produttivo, per l’economia e la società italiane, di valorizzare le interdipendenze tra le due aree del
Paese. Vuol dire mettere il Mezzogiorno nelle condizioni di rafforzare il suo contributo alla crescita
nazionale, nel breve periodo, contribuendo all’attivazione della domanda interna, a beneficio anche
delle aree più forti del Paese.
Se rivolti al rafforzamento delle infrastrutture e dei servizi sociali, inoltre, gli investimenti pubblici riescono a realizzare, al tempo stesso, finalità redistributive, facilitando l’accesso ai diritti di cittadinanza, caratterizzati dai divari territoriali discussi in altre parti di questo Rapporto, e di sostegno allo sviluppo economico. Perché le migliorate possibilità di accesso ai servizi essenziali sortiscono effetti paragonabili a quelli di migliori infrastrutture economiche. E la presenza di servizi sociali efficienti contribuisce a migliorare le condizioni esterne per gli investimenti produttivi al pari delle infrastrutture, ad esempio, di trasporto e comunicazione.
Secondo la SVIMEZ, serve anche una forte discontinuità nella politica industriale, attraverso strumenti meno orientati, come in passato, a mantenere in vita ciò che non regge alla prova della competitività e più focalizzati sulla capacità di attrarre e attivare nuove energie in settori innovativi. Le linee di policy prioritarie per riqualificare il sistema imprenditoriale meridionale andrebbero identificate, soprattutto nel sostegno alla crescita dimensionale delle aziende e nella promozione di forme di collaborazione tra imprese e sistema della ricerca per favorire efficaci processi di trasferimento tecnologico, in partenariato pubblico-privato.
Crescita nazionale e coesione territoriale sono due obiettivi complementari da perseguire congiuntamente in una strategia nazionale di sviluppo. Intorno a questa visione dovrebbe coagularsi un nuovo consenso politico sull’urgenza e la necessità di apprendere dagli errori commessi nei passati cicli di programmazione della coesione per riprendere le fila di una politica di coesione nazionale unitaria.