Politica di coesione FSC e POC: addizionalità nelle politiche di coesione

FSC e POC: addizionalità nelle politiche di coesione

di Annapaola Voto

La programmazione complementare rappresenta una componente strategica
per lo sviluppo dei territori. Le prospettive per il ciclo 2021-2027

Tra i principi di funzionamento dei Fondi strutturali e alla base delle politiche di coesione (organizzazione dei fondi per obiettivi e per regioni; partenariato tra CE, Stati membri e autorità regionali nella pianificazione, attuazione e monitoraggio; programmazione dell’assistenza), l’addizionalità dell’aiuto europeo rispetto alle sovvenzioni nazionali può essere considerato, allo stesso tempo, tra i più caratterizzanti e tra i più complicati da valutare/misurare. Tale approccio trae origine nell’atto stesso istitutivo del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Regolamento(CEE) n.724/75), in virtù del quale “il contributo del Fondo non deve indurre gli Stati membri a ridurre i propri sforzi in materia di sviluppo regionale, ma dev’essere complementare a quelli”.

Ancora, il Regolamento 2013/1303 (Regolamento generale delle politiche di coesione 2014-2020, art. 95) sosteneva esplicitamente che al fine di garantire un effettivo impatto economico, “il sostegno dei fondi […] non sostituisce le spese strutturali pubbliche o assimilabili di uno Stato membro” e che gli stessi Stati avrebbero dovuto assicurare e mantenere “un livello di spese strutturali, pubbliche o assimilabili, mediamente almeno pari, su base annua, al livello di riferimento stabilito nell’Accordo di Partenariato”. Addirittura, nel caso la Commissione avesse accertato il mancato rispetto di tale livello, avrebbe potuto procedere a una rettifica finanziaria, ossia un taglio netto della dotazione dei fondi. In pratica, una sezione dell’Accordo di Partenariato 2014-2020 individuava il livello minimo di risorse per investimenti cui lo Stato membro si impegnava a mettere a disposizione, al fine di assicurare il potenziamento delle politiche di investimento a valere su fondi europei.

Un meccanismo sanzionatorio, tuttavia, pressoché impossibile da applicare, come, da ultimo, la lettera a firma (datata fine 2019) dell’allora Direttore Generale della DG-REGIO, Marc Lemaitre, nella quale si denunciava come, a fronte di un impegno ad investire al Sud risorse pubbliche pari allo 0,47% del Pil del Mezzogiorno, il tasso d’investimenti reale si era attestato allo 0,38%: una differenza, che pur sembrando minima, rappresentava in realtà circa il 20% in meno di risorse pubbliche spese sul territorio. A fronte di questo, veniva richiesto alle autorità nazionali quali fossero le iniziative messe in campo per colmare quel gap, minacciando, in caso contrario, sanzioni. Poi però era arrivato il Covid-19 che, come sappiamo, avrebbe cambiato il volto del nostro Paese e dell’intera Europa coinvolgendo anche le Politiche di coesione, rendendo ancora più vera l’analisi secondo cui, come scrivono Carmelo Petraglia e Giuseppe Provenzano, “rivendicare il ‘primato’ della Coesione, come principale leva di investimento pubblico, che ha attutito gli effetti della crisi, è risibile, vista la generale mancanza di addizionalità dei fondi”.

Il fabbisogno addizionale dovuto agli effetti socio-economici della pandemia, prima, gli investimenti straordinari (tra cui il PNRR), successivamente, hanno consolidato questa tendenza alla “sostituzione” degli investimenti, piuttosto che all’addizionalità, al punto che né il nuovo regolamento generale delle Politiche di coesione, né l’Accordo di Partenariato nazionale che da esso discende, prevede più alcun tipo di verifica sulla addizionalità, né, ovviamente, meccanismi sanzionatori. Questo, però, non inficia il valore o l’utilità del principio, né mette in discussione l’evidenza per la quale le risorse europee, da sole, non sono in grado di colmare il fabbisogno necessario al superamento dei gap geo-economici. Né, su questo punto, può valere l’obiezione della contestuale presenza del PNRR che, a detta di tanti, rappresenterebbe la vera addizionalità, rendendo quasi superfluo (quando non dannoso in termini di impegno per amministrazioni pubbliche e beneficiari) ogni altro investimento nazionale. Questo non è vero per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, il RRF – Recovery and Resilience Facility (ossia il meccanismo europeo da cui discende il nostro PNRR) non annovera tra i propri obiettivi la coesione territoriale puntando esclusivamente alla ripresa e alla resilienza. In secondo luogo, esso è assolutamente uno strumento di investimenti di natura “straordinaria”, il cui orizzonte si concluderà nel 2026 e la cui dimensione finanziaria è difficilmente ripetibile (per modalità e per ampiezza).

Se a questo si aggiunge che tra gli altri principi cardine delle Politiche di coesione vi è anche “l’organizzazione dei fondi per obiettivi e per regioni” – elemento assente nella logica del PNRR – si comprende bene come ridiventano centrali e caratterizzanti, strumenti di investimento la cui funzione è esattamente quella di corroborare – in maniera diretta o indiretta – le Politiche di coesione nella funzione di superamento dei divari territoriali. In maniera diretta, nel caso del Fondo di Sviluppo e Coesione, per via indiretta (ma altrettanto importante) il Programma Operativo Complementare (POC).

In virtù dell’art. 4 DL 88/2011, quelli che una volta erano chiamati FAS-Fondi per le aree sottoutilizzate, hanno assunto la denominazione di FSC: principale strumento nazionale di finanziamento di politiche per lo sviluppo e la rimozione degli squilibri economici e sociali, assumendo che condivide con i fondi strutturali europei il rispetto del principio dell’addizionalità per cui al fine di contribuire al riequilibrio tra le diverse aree del Paese essi “non possono essere sostitutivi di spese ordinarie del bilancio dello Stato e degli enti decentrati” (art. 2). L’ammontare complessivo delle risorse viene ripartito e programmato mediante apposite delibere del CIPESS, con un criterio che prevede che il 60% è destinato alla gestione regionale (il 40% invece è gestito centralmente dai ministeri competenti), ferma restando una chiave di riparto che assegna alle Regioni del Mezzogiorno l’80% del totale complessivo delle risorse.

La delibera CIPESS n. 25/2023 del 3 agosto è intervenuta a individuare il riparto tra le Regioni dei 32,365mld/€ della quota di risorse ad esse spettanti: 6,363mld/€ al Centro-Nord, 26,001mld/€ al Mezzogiorno, di cui 6,569mld/€ alla Campania (il 25,3% del totale spettante al Sud). La stessa delibera ha anche stabilito la quota massima di FSC che le singole regioni possono utilizzare – erodendo la propria disponibilità – al fine di cofinanziare i fondi strutturali europei. Su questo aspetto vale la pena dire qualcosa. La programmazione 2021-2027 presenta, infatti, due novità. Da un lato, per la prima volta si consente anche alle regioni del Centro-Nord di utilizzare le risorse FSC per cofinanziare le Politiche di coesione, dall’altro si introduce un tetto massimo di utilizzabilità del FSC (omogeneo e trasversale a tutte le categorie di regioni) pari al 50% del valore assoluto del cofinanziamento ai fondi europei. Per paradosso, in virtù del fatto che le Regioni del Centro-Nord hanno un tasso di cofinanziamento nazionale più elevato rispetto al Sud (60% contro 30%), si è stabilito un sistema pernicioso per il quale a conti fatti la Lombardia (315,6mln/€) in termini assoluti potrà utilizzare più risorse FSC della Campania (313,3mln/€) per cofinanziare i fondi strutturali. Elemento che, non solo contraddice la proporzionalità di utilizzo e destinazione proprio del Fondo, ma che alla lunga rischia di gravare come un macigno sui già precari bilanci delle regioni del Sud, imponendo tagli ad altri servizi.

Prima di capire come il DL 124/2023 ha modificato l’intero assetto delle politiche di investimento nazionali, occorre parlare anche del secondo strumento a disposizione delle Regioni, il Piano Operativo Complementare (POC). La prima cosa da chiarire è che le risorse del POC traggono origine direttamente nella programmazione dei fondi strutturali. L’accordo di Partenariato ha stabilito che per la Regione Campania l’importo complessivo massimo programmabile sui programmi FESR ed FSE+ ammonta a 6,973mld/€, di cui 4,881mld/€, da finanziarsi a valere sul bilancio generale dell’Unione europea e 2,092mld/€ a titolo di cofinanziamento statale (pari al 30%) a valere sul Fondo di rotazione ex art. 5 L. 183/1987. Tale ammontare del tasso di cofinanziamento statale è stato determinato dalla scelta della Regione Campania di aderire alla possibilità di elaborare un proprio Programma operativo complementare – sulla scorta di quanto previsto dalla Nota del Ministero per il Sud e per la Coesione, a firma dell’allora Ministro Carfagna (novembre 2021) – utilizzando risorse derivanti dall’abbassamento della quota di cofinanziamento statale (appunto fino al 30%), rispetto all’originaria proposta, che era pari al 44,52%.

Conseguenza della rimodulazione del cofinanziamento statale è stata di liberare risorse per 1,277mld/€ che – in virtù del fatto che il fondo di rotazione “concorre, nei limiti delle proprie disponibilità, al finanziamento […] di eventuali interventi complementari rispetto ai programmi cofinanziati dai fondi strutturali” (art. 1(54) L. 178/2020) – possono essere destinate al POC Campania 2021-2027. Da dove nasce il bisogno di un tale Programma? Anzitutto dall’esigenza di assicurare il completamento di quegli interventi che, già finanziati a valere sul POR Campania FESR 2014-2020, per le ragioni più diverse, non sono stati completati. Più in generale, la programmazione complementare rappresenta una componente strategica per lo sviluppo dei territori, in particolare assicurando le risorse necessarie in settori nei quali i fondi strutturali europei non assicurano la necessaria dotazione, come nel caso della cultura.

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